COMMISSIONI
RIUNITE
II (GIUSTIZIA) E XII (AFFARI SOCIALI)
Resoconto stenografico
INDAGINE CONOSCITIVA
Seduta di
mercoledì 28 gennaio 2004
PRESIDENZA DEL
PRESIDENTE
DELLA XII COMMISSIONE GIUSEPPE PALUMBO
La seduta comincia alle 14,20.
Audizione di rappresentanti dell'Associazione medici amministrazione
penitenziaria italiana (AMAPI), del Sindacato autonomo infermieri (SAI) e del
Coordinamento nazionale degli operatori per la salute nelle carceri italiane (Co.N.O.S.C.I.).
PRESIDENTE. Le Commissioni riunite II (giustizia) e XII (Affari sociali) della
Camera dei deputati hanno deliberato lo svolgimento di un'indagine conoscitiva
sulla sanità penitenziaria, che inizia con l'audizione odierna. Sono presenti il
dottor Pasquale Paolillo, segretario generale dell'Associazione medici
amministrazione penitenziaria italiana; il dottor Sandro Libianchi e la signora
Ada Silvestri, del Coordinamento nazionale degli operatori della salute nelle
carceri italiane; il signor Marco Poggi, il signor Sandro Quaglia e il signor
Mario Parisella per il sindacato autonomo infermieri.
Sapete che la richiesta di un'indagine conoscitiva della XII e della II
Commissione è stata avanzata per conoscere lo stato attuale della medicina
penitenziaria e per approfondire la conoscenza della situazione sanitaria
attuale nelle carceri italiane, dopo la riforma Bindi del 1999 ed in previsione
di eventuali riforme contenute in progetti di legge presentati presso la Camera
dei deputati.
Ritengo importante il vostro contributo, al fine di capire in che modo eventuali
riforme possano essere attuate, così come importante sarà il contributo che
potrà essere dato dagli altri soggetti che saranno auditi nelle prossime
settimane.
Do dunque la parola al dottor Paolillo, segretario generale dell'Associazione
medici amministrazione penitenziaria italiana.
PASQUALE PAOLILLO, Segretario generale dell'Associazione medici amministrazione
penitenziaria italiana (AMAPI). A nome dell'associazione che rappresento voglio
ringraziarvi per l'invito rivoltoci. È un momento difficilissimo per la medicina
penitenziaria: dal 1998 ci sono stati anno dopo anno tagli di parecchi miliardi
nelle varie leggi finanziarie, tanto da determinare la morte naturale di questo
servizio; morte naturale che non si è arrestata con il decreto-legge n. 230 del
1999, che, pur contenendo senza dubbio dei punti condivisibili, quali ad esempio
la presa in carico del paziente detenuto, la gratuità dei servizi rivolti ai
detenuti e, non ultima, la pari dignità del paziente detenuto rispetto al
paziente civile, ha contribuito al peggioramento della situazione.
Basti pensare ai problemi legati al famoso passaggio «a costo zero». Vorrei
soffermarmi su questo punto, che ha determinato il fallimento totale di questo
decreto legge. Ciò è dimostrato dal fatto che alcuni punti che sono stati
assorbiti dal Servizio sanitario nazionale, come il servizio tossicodipendenze e
il servizio di igiene e profilassi, dopo molti anni non sono stati ancora
realizzati in nessuna regione, ad eccezione di Campania, Toscana e Basilicata,
che distribuiscono gratuitamente i farmaci all'interno delle strutture
penitenziarie. Peraltro, mi consta che nella regione Calabria, con il passaggio
dell'organico del servizio tossicodipendenze, il personale è stato licenziato e
quindi non è stato assunto come previsto dalla legge.
Il secondo motivo per cui credo che la legge Bindi sia fallita è la necessaria e
tuttavia mancata difesa dell'autonomia della medicina penitenziaria, autonomia
che non deve essere pensata come difesa dei privilegi dei medici o degli
infermieri a livello strutturale, ma che aveva un significato perché c'era e c'è
ancora una cultura che è stata acquisita negli anni passati e che deve avere un
futuro. Tale autonomia non significa mantenere delle incompatibilità, come molti
ritengono, perché un operatore penitenziario deve essere in grado di lavorare
anche in strutture diverse, in maniera tale che ci sia una sufficiente osmosi di
operatività tra l'interno e l'esterno del carcere.
La situazione, allo stato attuale, come riferivo dianzi, è deficitaria, a causa
dei tagli operati in tutti questi anni. È noto come il numero dei detenuti sia
sempre in aumento e, quindi, è chiaro che, se vi è una deficienza economica nel
supportare le strutture, non si può garantire neanche il minimo di prestazioni
necessarie: le patologie sono aumentate, da quelle psichiatriche a quelle
infettive alla tubercolosi - in progressione - all'epatite virale di tipo C.
Circa quest'ultima affezione, ormai, se si facesse uno screening su tutta la
popolazione detenuta, troveremmo una percentuale altissima di positività;
inoltre, una percentuale molto alta avrebbe anche bisogno di cure, cure che, per
tale patologia, sono altamente costose (e quindi, allo stato attuale,
assolutamente insostenibili). Per la tubercolosi, poi, è sempre necessario fare
lo screening ma non possiamo effettuarlo in quanto esso ha un costo
insostenibile, se effettuato all'ingresso per tutti i detenuti. Peraltro,
basterebbe solo la positività al test per determinare anche la profilassi
necessaria per la cura; ciò, dal momento che un buon 30-40 per cento
risulterebbe positivo (non affetto, sibbene positivo), determinerebbe un crollo
economico di tutto il servizio.
L'ultimo aspetto che intendo affrontare - sono sempre pronto, comunque, a
rispondere ad altre domande - riguarda la situazione infermieristica; manca
l'organico e, senza infermieri, qualsiasi tipo di servizio è assolutamente
impraticabile, vanificato da tale deficienza organica. Gli infermieri, come
anche i medici, rappresentano un fulcro centrale; si deve introdurre qualche
innovazione tale che consenta di riempire le carceri di queste strutture e
dell'organico necessario; altrimenti, è del tutto inutile andare avanti,
sussistano o meno le risorse.
PRESIDENTE. La ringrazio. Do ora la parola al segretario nazionale del SAI,
signor Marco Poggi.
MARCO POGGI, Segretario nazionale del Sindacato autonomo infermieri (SAI).
Innanzitutto, desidero presentare l'organizzazione, invero non grandissima, da
me rappresentata oggi in questa sede; infatti, per così dire, un biglietto da
visita evita, poi, eventuali fraintendimenti nel prosieguo della discussione.
Siamo un sindacato molto piccolo, che, però, ha una visione molto chiara di
quanto vuole rappresentare e di quanto lo anima; crediamo che, al centro della
nostra attività, vi sia il paziente. A prescindere da dove dobbiamo intervenire
professionalmente per risolvere eventuali problemi di salute, il soggetto rimane
sempre un paziente; non sempre si riscontra tale atteggiamento all'interno di
alcune strutture. A nostro avviso, invece, la nostra dignità professionale
passa, comunque, attraverso la risposta al bisogno di salute dei detenuti; non
enfatizzo tale aspetto, anche perché, tra l'altro, il dottor Paolillo lo ha
ampiamente dimostrato.
Anch'io voglio ringraziarvi per averci invitato a partecipare a questa occasione
di incontro; soprattutto, però, mi compiaccio dell'interesse che, in maniera
seria, si comincia a prestare alla problematica della medicina penitenziaria e
degli infermieri che, come dimostrano i fatti, è una figura importantissima
all'interno della sanità. Noi ci crediamo; abbiamo anche manifestato dinanzi al
Parlamento due volte per far sentire la nostra voce a tal proposito.
Pensiamo, però, che l'autonomia della medicina penitenziaria non esista; noi
crediamo, piuttosto, nell'autonomia della medicina. Infatti, è la medicina -
penitenziaria o meno - che deve dare la risposta di salute ai cittadini, anche a
quelli detenuti che, per vicissitudini loro, attraversano un periodo nel quale
non sono liberi di scegliere neppure il tipo di cura. Invero, all'interno delle
carceri, la medicina penitenziaria, allo stato attuale, con la legislazione
vigente, non esiste; infatti, prevalgono comunque esigenze diverse, quelle,
certo serissime e non meno importanti, della sicurezza.
Non critico tutta la normativa varata quando era ministro l'onorevole Bindi;
siamo, però, ipercritici nei riguardi di quanti avrebbero dovuto applicare tali
norme. Ho lavorato ventuno anni in carcere e oggi, a mio avviso, stiamo
ripetendo interamente l'errore compiuto nel paese quando, con la legge n. 180
del 1978, chiusi i manicomi, non sono mai state in alcun modo finanziate
strutture alternative. Vi erano strutture che rispondevano ad alcune situazioni,
ma in maniera del tutto inadeguata. A tale ultimo riguardo, anzi, avendo
lavorato in tali situazioni, lotterò fino in fondo affinché non si ripetano mai
più.
La medicina penitenziaria vive anch'essa questa contraddizione; si parla di
autonomia ma se leggiamo la legge n. 740 del 1970, un medico non può far uscire
un detenuto dall'istituto. Può solo avanzare una proposta in tal senso ma, in
realtà, è il direttore che decide. A volte, si cerca di convincere i detenuti di
inesistenti miglioramenti in quanto, se restassero in ospedale, non vi sarebbe
il personale per piantonarli. Non abbiamo più farmaci per le esigenze minime dei
detenuti; in quest'aula, tutti, forse, abbiamo avuto il mal di denti: sappiamo
che si tratta di uno di quei dolori verso i quali l'essere umano è più
intollerante. Ebbene, in molti istituti, non vi sono farmaci analgesici.
Occorre una programmazione seria; ci sono note le difficoltà economiche e,
perciò, comunque, non è egoisticamente che chiediamo più investimenti e più
fondi per la medicina penitenziaria in quanto particolare disciplina che
affronta problemi specifici di una parte della società. Vogliamo certo più
investimenti, ma sulla base di progetti. Al nord - e ciò è di una banalità
disarmante - gli infermieri non lavorano più negli istituti penitenziari; tra
l'altro, mentre noi discutiamo, probabilmente, in molti istituti, medici o,
nella peggiore delle ipotesi, taluni agenti stanno praticando la terapia.
Distribuiscono farmaci; ma il farmaco è una cosa importante, non è una lettera o
un francobollo.
Molti infermieri se ne vanno a malincuore; c'è, infatti, chi, per così dire, ha
voglia di carcere. Guardate che molti di noi soffrono della sindrome di
Stoccolma; stanno malissimo ma trovano difficile andar via. Ci si affeziona, ci
si innamora del lavoro, se ne capisce l'importanza. Pure, molti vanno via. Mi
scuserete se, per così dire, volo basso e non rinuncio ad osservare che abbiamo
ottenuto solo poco più di due euro di aumento l'ora, pari alle 5 mila delle
vecchie lire: siamo l'unica categoria al mondo che si è pagata l'aumento, in
quanto è stato abbassato il monte ore.
Un infermiere penitenziario non può minimamente progettare il suo futuro, quando
invece questo aspetto riveste un'importanza vitale. Gli infermieri vanno non
solo pagati ma anche stimolati e, invece, non contano. La legge dà autonomia
agli infermieri; ebbene, nelle carceri tale autonomia non esiste o, comunque, si
passa attraverso certi retaggi.
Tutto ciò manca alla medicina penitenziaria, non tanto le rivendicazioni
sindacali - le faremo, nelle sedi opportune - quanto la programmazione, la
voglia di fare. Abbiamo un ministro col quale chiediamo di avere incontri, ma
questo non ci viene concesso: capisco che siamo un sindacato piccolo, ma almeno
dovrebbe permetterci di essere ascoltati; probabilmente, se non saremo in grado
di dare un contributo, poi, non ci riceverà più. Incontriamo nel dipartimento
difficoltà enormi a portare avanti progetti, non solo le richieste individuali o
sindacali. Questa è la medicina penitenziaria, non soltanto il taglio delle
risorse, che pure è importante.
In conclusione, denunciamo l'assenza della volontà politica di risolvere il
problema; è la denuncia che noi, come sindacato, facciamo, soprattutto in questa
sede, nel mondo della politica. Non vi è la volontà di superare questa
situazione. Se qualcuno vuole che i detenuti non vengano curati, lo dicano e,
poi, dopo, non si meraviglino se aumentano i suicidi o gli atti di
autolesionismo.
PRESIDENTE. La ringrazio per la sua relazione e do la parola al presidente del
Coordinamento nazionale degli operatori per la salute nelle carceri italiane,
dottore Sandro Libianchi.
SANDRO LIBIANCHI, Presidente del Coordinamento nazionale degli operatori per la
salute nelle carceri italiane (Co.N.O.S.C.I.) Ringrazio le Commissioni per
l'invito. Intervengo a nome non di un sindacato ma di un'associazione culturale,
di studio e volontariato, per cui la posizione che esprimiamo appare meno
personalizzata. Di conseguenza, non parliamo della legge Bindi, o di altro
provvedimento collegato al nome di esponenti politici, ma ci limitiamo a parlare
semplicemente di una legge di delega, nella specie la n. 419 del 1998, che ha
rappresentato comunque un risultato importantissimo, riconoscendo una
problematica - quella della salute in carcere - molto più ampia rispetto a
quella della medicina penitenziaria. Si è trattato di un percorso avviato già
nel corso dell'XI legislatura, quando, presso il Senato della Repubblica, venne
svolta un'indagine che mise chiaramente in luce tutti gli aspetti critici della
questione, che allora erano solo emergenti ed oggi, purtroppo, sono esplosi
nella loro gravità. Mi riferisco, appunto, a quelli legati alla tutela della
salute nelle strutture carcerarie. Dopo il primo decreto intervenuto in materia
ne sono stati previsti altri di attuazione, il principale dei quali è il n. 230
del 1999.
Se all'epoca era possibile pensare che un dato finanziamento - pari a circa 220
miliardi di allora - fosse sufficiente per mantenere la salute in carcere,
senz'altro, le risorse attuali, con i tagli successivamente intervenuti (il più
recente dei quali - previsto dall'ultima legge finanziaria - è di entità a noi
non nota ma sicuramente rilevante ) appaiono non più sufficienti.
Alla luce del quadro tracciato, si potrebbe parlare di riordino del settore e
non di riforma; in proposito, non può passare inosservato il percorso di questa
normativa, il cui esito è stato l'adozione di un provvedimento di seconda
istanza, su cui, cioè, vi è stata molta poca attenzione da parte degli organi
che invece avrebbero dovuto vigilare. Un provvedimento successivo al decreto n.
230 ha peraltro istituito un comitato di valutazione in materia, presieduto
dall'onorevole Guidi, sottosegretario di Stato per la salute, e dall'onorevole
Valentino, sottosegretario di Stato per la giustizia, i cui lavori si sono
conclusi con l'adozione di una relazione finale consegnata in data 27 giugno
2002. In essa sono espressi tutti i punti emersi da un'indagine condotta sul
campo, che ha interessato anche le singole regioni - sei regioni sperimentali -,
analizzate sia nel dettaglio locale si attraverso la valutazione della
documentazione prodotta. Ciò, unitamente al dialogo intercorso con i
responsabili regionali, ha prodotto un risultato che definiamo non negativo,
mentre si è proceduto ad individuare tempi e modi di conseguimento di obiettivi
successivi. Soprattutto si è misurata l'assenza di una regia globale capace di
accompagnare questo processo in tutte le sue difficilissime fasi.
Da una parte si è stabilito un riordino, dall'altra, nel contempo, non si è
avuta la sicurezza di un finanziamento adeguato: questo è stato anzi
progressivamente ridotto, creando, da parte regionale, una forte resistenza al
cambiamento. Ciononostante, tuttavia, numerose azioni e progettualità sono state
portate avanti. Oggi, ad un anno e mezzo di distanza, siamo fermi.
Non sono intervenute ulteriori novità, se non il decreto di transito del
personale delle tossicodipendenze (che rappresenta una piccola percentuale
rispetto al totale) alle regioni, ma ancora una volta senza una regolamentazione
adeguata e chiara, né un vincolo contrattuale, probabilmente determinante ai
fini della motivazione nell'adesione ai programmi e per il compimento di passi
successivi. Per concludere, sicuramente esiste un'autonomia, nel senso di una
peculiarità di disciplina della sanità in carcere, è però altrettanto certo che
il problema interessa i detenuti ma anche gli operatori. Un medico, un
poliziotto e un detenuto, vivendo nello stesso microclima, respirano la stessa
aria e probabilmente anche gli stessi microbi. Quando si parla di salute in
carcere, perciò, occorre tener ben presente il quadro di riferimento appena
analizzato, come pure l'aspetto riguardante l'autonomia - da intendere
nell'ambito del federalismo e alla luce delle modifiche del titolo V della parte
seconda della Costituzione -, che assume una valenza particolare. E le regioni,
in base a questi principi, hanno lo strumento per assumere in carico questo
onere.
PRESIDENTE. Do ora la parola ai colleghi che desiderano intervenire.
DOMENICO DI VIRGILIO. Signor presidente, l'utilità dell'indagine conoscitiva in
corso si evince già da queste prime audizioni, ed in proposito ringrazio
sentitamente gli ospiti intervenuti. Da quello che abbiamo ascoltato sembra
quasi che i detenuti costituiscano sul piano della salute dei cittadini di serie
B. Abbiamo sentito parlare delle carenze strutturali, economiche, organizzative
e persino terapeutiche esistenti. Da ciò, se così fosse, e non metto
assolutamente in dubbio quanto è stato detto in questa sede, discenderebbe che
la medicina penitenziaria rappresenta una cenerentola nel nostro sistema
sanitario. È un grido d'allarme piuttosto grave perché, dinanzi al diritto alla
salute, alla luce del dettato costituzionale, non può esistere una differenza
tra cittadini liberi e quelli momentaneamente in fase di contenzione. In base a
quanto apprendiamo, il decreto n. 230 che ha delegato alle regioni questo
servizio, in realtà avrebbe provocato non solo assenza di vantaggi ma anche
problematiche evidenti rispetto al precedente sistema dipendente
dall'amministrazione penitenziaria dal Ministero di grazia e giustizia.
Peraltro - e demando al professor Paolillo la risposta a questo specifico
quesito - mi sembra estremamente grave il fatto che per le epatiti (così
frequenti per la popolazione dei tossicodipendenti) non si possa usare neppure
l'interferone, quando questo viene, invece, utilizzato tranquillamente e
somministrato nei casi di epatite attiva in tutti gli ospedali. Non comprendo
pertanto il motivo di questa difformità.
Chiudendo questa parentesi, mi sembra di capire che le richieste avanzate siano
quelle di una rivisitazione dell'autonomia e della peculiare funzione degli
operatori sanitari nelle carceri. Di fronte a ciò, domando se questo non
significhi voler ritornare al modello di un corpo autonomo, collegato al
Ministero della Giustizia.
Reputo, inoltre, utile acquisire altri elementi a proposito delle differenze
economiche tra medici che operano in strutture sanitarie, particolarmente tra
quelli operanti in una struttura penitenziaria e gli altri in servizio presso
gli istituti ospedalieri.
Quanto agli organici, il problema degli infermieri è di una carenza - misurata a
livello nazionale - molto grave, che tutti conosciamo: ritengo che in questo
campo sarebbe necessario pensare a degli incentivi, anche economici, capaci di
facilitare l'accesso degli operatori sanitari medesimi all'interno delle
strutture carcerarie.
PRESIDENTE. Invito i colleghi a sintetizzare le domande, in considerazione dei
successivi impegni delle Commissioni.
SERGIO COLA. Ho dovuto constatare non solo i numerosi suicidi cui faceva cenno
il rappresentante del sindacato, ma anche decessi che possono avere una
rilevanza sotto il profilo penalistico, quanto meno sotto il profilo
dell'omicidio colposo.
Molte volte è stata evidenziata l'incompatibilità con il regime carcerario
soprattutto in relazione (e su questo punto vorrei una risposta)
all'impossibilità di curare alcuni tipi di malattia. Il quesito che pongo a
tutti è il seguente: abbiamo parlato di epatite C, di tubercolosi e si sono
dette delle cose molto gravi. Vorrei sapere se le strutture carcerarie italiane
siano dotate di sezioni specialistiche che possano provvedere alla cura di
particolari patologie, perché ho potuto constatare in passato - e su questo
aspetto esiste una diatriba - che alla fine chi decide è il direttore
dell'istituto e non il medico. Molte volte ci siamo trovati di fronte al rigetto
di richieste di cure mediche al di fuori degli istituti, con conseguenti decessi
dei malati detenuti in carcere.
Vorrei conoscere l'attuale assetto delle strutture carcerarie in relazione a
reparti specialistici che possono curare determinate malattie e sapere se si è
in condizione di poterle realmente curare.
KATIA ZANOTTI. Desidero ringraziare i nostri interlocutori e chiedere
rapidamente due cose. Esiste una sensibilità particolare del Parlamento e di
queste due Commissioni sui temi della medicina penitenziaria, alla luce delle
drammatiche emergenze che ci vengono costantemente segnalate e che sono state
rilevate anche nel corso delle nostre visite in carcere.
Credo che per dare una risposta ad un diritto, quale quello della salute, non
dobbiamo limitarci ad una discussione che riguarda soltanto l'autonomia della
medicina penitenziaria o il passaggio sotto il servizio sanitario nazionale,
perché si rischia di rimanere in un ambito puramente ideologico. Ritengo che le
visite che faremo in carcere saranno utili per avere elementi conoscitivi
ulteriori per poter trarre delle conclusioni. Da un anno e mezzo non abbiamo più
notizie e non sappiamo cosa stia succedendo, anche se possiamo immaginare che la
situazione sia peggiorata. Purtroppo non ci sono fondi disponibili per garantire
il miglioramento di questa situazione che viene annunciata da tutti come
drammatica e su questo non credo che ci siano pregiudizi di tipo ideologico. Ci
viene sottolineato costantemente un aumento del sovraffollamento nelle carceri e
contestualmente un aumento spaventoso delle patologie legate alla situazione
carceraria -(il dottor Paolillo ci ha parlato prima del dramma della
tubercolosi).
Se questo è il senso della nostra discussione, chiedo al sindacato degli
infermieri quali sono le proposte che una figura professionale così importante
avanza in un contesto così compromesso.
MARIO PEPE. La salute in carcere deve essere tutelata e questo nessuno lo
discute. Il problema può essere rappresentato dalle risorse finanziarie, che
spetta a noi distribuire meglio. In questi anni i governi hanno sempre aumentato
gli stipendi dei magistrati: il processo Andreotti è costato duecento miliardi.
È chiaro che allora mancano le risorse e a decidere in che modo vengono spesi i
soldi pubblici non è il Ministero ma altri soggetti.
Il problema è se il servizio di medicina penitenziaria debba essere affidato al
sistema sanitario nazionale o no. Alcuni servizi, come quello delle
tossicodipendenze, sono stati affidati alle ASL, ma mi chiedo se sia più giusto
ripristinare l'autonomia del sistema di medicina penitenziario e metterlo alle
dipendenze del Ministero della giustizia oppure se non sia il caso di affidare
questa competenza alle ASL. Come possono le ASL garantire un servizio quando non
ci sono neppure infermieri sufficienti per coprire le strutture ospedaliere e si
è quindi costretti a ricorrere a cooperative private?
FRANCESCO PAOLO LUCCHESE. L'assistenza medica penitenziaria non è di serie B, ma
di serie C e questa mia convinzione nasce da una visita che ho effettuato in
alcune carceri. È giusto quindi che le Commissioni visitino gli istituti di pena
- non solo quelli più grandi - per rendersi conto della situazione.
Condivido inoltre ciò che ha detto l'onorevole Zanotti. Il problema dipende da
una peculiarità diversa, che è un dato di fatto, e dalla volontà o meno di
affrontare la questione. Nel carcere Pagliarelli esiste un reparto attrezzato
per il ricovero ospedaliero che tuttavia non è funzionante, mentre in altre
carceri non esiste nulla. Questa audizione è quindi utile per conoscere,
attraverso gli incontri con gli esperti, la situazione reale.
Da medico vorrei rivolgere una domanda al dottor Paolillo: come mai in carcere
esistono così tante patologie e così tanti malati? Non riesco a capire per quale
ragione all'interno di un carcere ci sono più malati che altrove.
FRANCO GRILLINI. Approfitto dell'occasione per sollecitare la risposta ad una
interrogazione, da me presentata e firmata anche da altri colleghi delle
Commissioni giustizia ed affari sociali, concernente il problema, a mio avviso
davvero drammatico per la sanità carceraria, dei malati di AIDS e della
sieropositività. Finora non è stato citato, ma si tratta di un problema di
assoluta drammaticità. Molti malati di AIDS non dovrebbero stare in carcere in
quanto persone che hanno meno di 200 CV 4 nel sangue: la stessa normativa
prevede che siano reclusi in strutture alternative. Dunque, mi chiedo perché
moltissimi di questi malati continuino ad essere reclusi nei penitenziari.
Mancano i medicinali, purtroppo molto costosi; tutti sappiamo che la triterapia
ha costi intorno a 250 euro mensili a persona; per molti, perciò, questa cura
non è accessibile. Inoltre, quando la persona è in cura con la triterapia, si
deve tenere conto, specie in caso di trasferimento, quando s'interrompe la cura,
che l'inizio del trattamento medico poi sospeso
procura più danni che benefici, per motivi che,
essendo ben noti a quanti si occupano di medicina, tralascio di spiegare per
ragioni di brevità.
Inoltre, la questione del test è rilevante in quanto, spesso, gli altri detenuti
hanno paura delle persone sieropositive, una paura ovviamente sbagliata in
quanto si sa bene quali siano i sistemi di trasmissione dell'HIV. Si è svolta
una manifestazione di tutto l'arco dell'associazionismo dinanzi alle carceri -
di ogni orientamento politico, laico e cattolico - per sollecitare la
risoluzione di tali problemi. Vorrei conoscere quali soluzioni proponiate e
perché mai le strutture alternative alla carcerazione, pure previste, non siano
entrate in funzione; gradirei, altresì, apprendere perché mai persone che non
dovrebbero rimanere in carcere continuino, invece, a rimanervi.
Infine, sappiamo bene che la legge n. 135 del 1990 impone test anonimi e
facoltativi ma non obbligatori; invece, in molti casi, ovviamente, un detenuto
non è in grado di opporre resistenza alla richiesta della test. Questo è un
aspetto particolarmente delicato, anch'esso oggetto della mia domanda.
MARIDA BOLOGNESI. Signor presidente, a mio avviso, non partiamo, per così dire,
dall'anno zero, in quanto il Parlamento si è già occupato della questione da ben
due legislature. Vi sono stati vari tentativi di riforma e, personalmente,
ritengo che il decreto legislativo n. 230 del 1999 sia un'occasione mancata di
cui portiamo la responsabilità tutti: il Governo, il Parlamento e sicuramente
anche la medicina penitenziaria. A tale ultimo riguardo, chiarisco che mi
riferisco alle resistenze incontrate nell'attuazione della riforma, forti ed
interne, tali da lasciare una situazione che poi, a metà strada, è degenerata
nella condizione attuale.
A mio avviso, però, i principi fissati dal decreto legislativo n. 230 del 1999 e
quel poco di sperimentazione che si è potuto praticare possono costituire una
base su cui riflettere; al riguardo, vorrei capire se i nostri ospiti abbiano
riflettuto su tale mancata occasione e su come, da diverse sponde, si è spinto
per la non attuazione. Attuazione difficile; non era possibile, probabilmente,
in quei tempi e in quei termini. Tuttavia, con un coinvolgimento maggiore di
tutti e se gli obiettivi sono condivisi, possiamo ancora evitare di doverla
considerare un'occasione completamente perduta.
Quanto all'autonomia, non mi diffonderò in quanto ritengo, certo, che vi sia una
peculiarità della realtà carceraria dal punto di vista sanitario; tuttavia,
l'unica peculiarità vera è la sicurezza. Una volta risolto il problema
sicurezza, tutti siamo uguali di fronte a principi costituzionali quali il
diritto alla salute. Peraltro, sicuramente la popolazione carceraria è a maggior
rischio per le ben note condizioni; invero, si tratta di una popolazione che ha
bisogno di maggiori servizi, di maggiori anziché minori tutele.
Non ritengo sia avvalorabile la tesi dell'autonomia se non come rivendicazione
sindacale, rivendicazione che non voglio prendere in considerazione e che non mi
interessa.
Vengo ora al contributo che potete recare, attesa la vostra esperienza, circa
l'incompatibilità rispetto al regime carcerario di alcune patologie; ho avuto
occasione di seguire il tema dei manicomi criminali attraverso alcuni convegni
tenutisi, in particolare, a Montelupo fiorentino ed ho appreso delle percentuali
di persone che, sotto il profilo della salute mentale, si ammalano in carcere.
La popolazione che entra nei manicomi criminali appartiene quasi per intero o
alle fasce povere della società - gente che viene denunciata dai familiari per
maltrattamenti - o all'insieme di quanti provengono dalle carceri. Ciò significa
che un lavoro di prevenzione, sotto il profilo della salute mentale - salute
mentale che, ovviamente, con la mancanza di libertà, è la prima ad essere minata
-, evidentemente non esiste. La situazione è abbastanza difficile, salvo alcune
«perle»; eccezioni per le quali si è, per così dire, costruito un mondo per
difendere quanto, a mio avviso, in questa era ed in questa fase storica della
sanità e dell'organizzazione sanitaria dovrebbe essere ripensato. Per farlo,
dobbiamo, a mio avviso, partire nuovamente dal decreto legislativo n. 230 del
1999.
Vorrei quindi ricevere un vostro contributo sul tema della prevenzione della
salute mentale in carcere e sulle incompatibilità con tale regime; vorrei,
altresì, sapere se siate a conoscenza di quanto si sta operando in alcune
regioni e se abbiate contribuito, in qualche modo, a stilare la carta dei
diritti sanitari dei detenuti. A mio avviso, anche ciò costituisce un aspetto
sul quale lavorare, atteso che esistono, in tali ambiti, peculiarità di
condizioni di vita; non altrettanto peculiari sono le condizioni professionali
di chi vi opera.
Gradiremmo pertanto avere una mappatura della situazione attuale che consenta di
far ripartire un'idea riformista. Credo che non sia possibile né tornare al
passato né, forse, riproporre solamente i principi del decreto legislativo n.
230 se, nel contempo, non vi è un percorso disegnato insieme. Sapete quanto io
sia stata critica al riguardo; il decreto legislativo n. 230 non è frutto del
ministro Bindi. L'onorevole Bindi ha molte colpe, o molti meriti; ma il decreto
legislativo n. 230 è nato dalla discussione in Commissione, da un lavoro
parlamentare ...
SERGIO COLA. Tutti possono sbagliare.
MARIDA BOLOGNESI. Quando sono tutti unanimi è difficile...
SERGIO COLA. Esistono gli errori di massa.
MARIDA BOLOGNESI. Errori che si commettono dentro e fuori il Parlamento. Dunque,
ricevendo tali contributi, il Parlamento può ripartire - e non da zero - con
nuove proposte.
GRAZIA LABATE. Intervengo per porre brevemente alcune questioni. Anzitutto, a
mio avviso, le due Commissioni oggi riunite debbono entrambe acquisire la
relazione circa la sperimentazione avviata a seguito del decreto legislativo n.
230 nelle regioni citate e a tutti note. Questa sarà una base comune di
conoscenza per tutti i commissari al fine di trarre una valutazione nel merito.
Tale aspetto mi sta particolarmente a cuore, essendo io stata, all'epoca, il
sottosegretario che ha ampliato la sperimentazione alle due regioni
precedentemente indicate, proprio in quanto il panorama italiano si presentava
assai diverso, sia dal punto di vista delle strutture carcerarie sia dal punto
di vista del tipo di operatività sanitaria che, all'interno, vi era. Partiamo
tutti, quindi, da un dato di conoscenza per poter esprimere un giudizio
d'accordo con i colleghi, un giudizio che, possibilmente, non sia ideologico;
infatti, tutti, in questa sede, siamo impegnati nel miglioramento della tutela
della salute nelle carceri italiane.
In base alla mia esperienza, occorre superare alcune rigidità, innanzitutto
quella dell'amministrazione penitenziaria, che segue da moltissimi anni
determinati schemi per i quali, come è stato sottolineato in questa sede, la
priorità non è la salute del detenuto ma l'osservanza delle procedure dal punto
di vista della giustizia penitenziaria. Dico questo in presenza del dottor
Libianchi, il quale è a conoscenza di quanto è accaduto quando ci siamo trovati
con i malati di AIDS sui tetti delle carceri di Regina Coeli e abbiamo dovuto
chiamare il Dap e poi studiare, in sede istituzionale, un meccanismo fino ad
allora non previsto. Alla luce di ciò, o il magistrato di sorveglianza riconosce
la possibilità di permettere al detenuto, malato di AIDS, di uscire dalla
struttura carceraria al fine di trovare ricovero e cura - ad esempio presso
l'ospedale Spallanzani -, o quello non si cura affatto, e non solo per la
mancanza dei farmaci. È per questo che si pensarono - a suo tempo - delle
procedure apposite, prevedendo la possibilità di inviare i medici infettivologi
in carcere.
Il secondo aspetto a mio parere fondamentale è quello di individuare dei punti
critici nell'osservanza delle procedure giudiziarie così che, in costanza di
prevalenza del diritto alla salute del detenuto, le stesse possano essere
migliorate e ottimizzate al fine di rispondere a quel determinato bisogno.
SERGIO COLA. Non vi è solo il problema del magistrato di sorveglianza, si tratta
di tutto il sistema!
GRAZIA LABATE. Certamente, è tutto il sistema, conosco perfettamente i termini
della questione. E la questione deve essere conosciuta in modo tale da possedere
il quadro cognitivo necessario per poi fornire successivamente le risposte
adeguate, altrimenti esauriremo soltanto nell'applicazione delle leggi un
problema che invece - seppur afferendo ad un principio della disciplina - assume
rilevanza soprattutto nella sua dimensione pratica e attuativa.
In terzo luogo, concordo sull'esigenza di evitare - conoscendo i dati e la
realtà di riferimento - che la riforma non tenga conto delle risorse
finanziarie. So, per esperienza diretta di responsabilità di Governo, che nella
legge finanziaria per il 2000, con il ministro Fassino, dovemmo prevedere lo
stanziamento di 50 miliardi per la realizzazione dei pochi obiettivi iniziali.
Allo stato, il problema - e ho letto, in proposito, il vostro volantino di
rivendicazione - è chiaramente quello del passaggio delle competenze alle
regioni, il che non coinvolge soltanto gli aspetti legati alla riforma del
decreto legislativo n. 230, ma anche quelli connessi al Titolo V della
Costituzione e al processo federalista. Vi è poi la questione delle modalità con
cui procedere (qualora si intendesse andare nella direzione del passaggio di
competenze) e secondo quali schemi, moduli organizzativi e di lavoro, secondo
parametri economici.
Auspico quindi che l'indagine conoscitiva consenta di affrontare questi nodi
fornendo delle risposte, con l'aiuto di tutti voi.
TIZIANA VALPIANA. Non possiamo che partire dall'articolo 32 della Costituzione
per porci delle domande rispetto alla tutela della salute in carcere. È un
diritto costituzionale, dell'individuo e dell'intera collettività che sia
tutelata la salute dei cittadini, mentre la stessa Costituzione non fa cenno
alcuno all'ubicazione degli individui titolari del diritto. Ritengo quindi che
anche all'interno del carcere un cittadino debba godere degli stessi diritti di
coloro che si trovano in condizioni di libertà, fruendo delle cure gratuite
riconosciute a questi.
Considero, in tal senso, fondamentali l'assistenza da parte delle ASL, e la
gratuità dei farmaci, come avviene per gli altri cittadini. Non possiamo
assolutamente accettare che alla pena della privazione della libertà - che già
di per sé è molto pesante - si aggiungano pene addizionali non considerate e non
richieste dal nostro codice, quali il dover vivere in condizioni di
ristrettezza, di sovraffollamento e di aggravamento della propria condizione di
salute.
Abbiamo citato precedentemente alcune categorie particolari che non dovrebbero
permanere nelle strutture carcerarie: i malati di AIDS, oppure i
tossicodipendenti, a cui spetterebbe una reale alternativa di cura all'esterno
delle comunità; i cittadini stranieri, la cui causa di detenzione sia
esclusivamente legata alla situazione di indigenza; le detenute madri, per le
quali, nella scorsa legislatura, abbiamo pensato ad un'apposita legge. Si tratta
di soggetti che concorrono indebitamente al sovraffollamento carcerario, facendo
sì che il numero degli operatori addetti sia ancora proporzionalmente inferiore
alla popolazione detenuta.
Quando avremo concluso questa indagine conoscitiva, uno degli aspetti su cui ci
si dovrà impegnare sarà quello dell'attuazione delle leggi che intanto esistono,
tirando fuori dal carcere le persone che in quelle strutture non debbono stare,
per poi capire realmente la misura effettiva della popolazione carceraria
residua e comprendere i suoi reali fabbisogni. In proposito, ritengo che il
principale problema sia rappresentato proprio dal personale infermieristico;
sarebbe giusto che il medico di medicina generale di un certo territorio
comprendesse, tra i suoi pazienti convenzionati, anche quei cittadini costretti
in carcere, ma non si può contestare che tutto l'aspetto terapeutico e di
gestione della vita carceraria sia di fatto delegato e demandato agli infermieri
penitenziari.
Vorrei, dunque, porre delle domande specifiche, relativamente alle quantità
numeriche. Quante sono, mediamente, le ore di presenza coperte in un carcere
dagli infermieri? Quanti carcerati un infermiere deve seguire per questioni
terapeutiche? Quante ore sono richieste agli infermieri e a fronte di quale
pagamento? Ritengo, in proposito, che ad una professionalità così specifica vada
riconosciuto un adeguato trattamento economico.
Inoltre, poiché mi sembra che la carenza di infermieri riguardi non soltanto le
strutture penitenziarie ma sia tale da interessare generalmente il nostro paese,
vorrei ricordare quanti sono gli infermieri stranieri, presenti sul nostro
territorio, a non veder riconosciuto il loro titolo di studio perché la
Commissione, anche in questo campo, si sta muovendo con estrema lentezza. Anche
sotto tale aspetto, auspico un riconoscimento rapido dei titoli di studio di
tutti cittadini stranieri, molti dei quali - spesso laureati in medicina -,
potrebbero rappresentare una risorsa anche per la medicina penitenziaria, dopo
un'apposita preparazione professionale.
GIULIO CONTI. Vorrei esaminare gli aspetti concreti del fenomeno. Innanzitutto,
occorre valutare l'opportunità di trasferire questo servizio alle regioni o
meno. Da parte mia, sono tradizionalmente e nettamente contrario. Il servizio
deve essere autonomo, come è stato per tanto tempo, pur necessitando di ovvi
miglioramenti. Le regioni incontrano già molti problemi nell'amministrare la
sanità «normale»: aggiungere anche quella penitenziaria (che è di tutt'altra
natura ed esige altro, anche per dare un servizio continuativo all'interno del
carcere) significherebbe complicare ulteriormente il quadro di riferimento. A
mio parere, sarebbe necessario invece abbandonare questo falso obiettivo teso
interamente al risparmio, il quale non si concilia con un servizio adeguato nei
confronti del carcerato.
Vengo, quindi, alle strutture per le malattie infettive. Ho visitato molte
carceri, una delle quali mi fatto particolarmente impressione: mi riferisco a
Regina Coeli, dove il malato di AIDS con cui ho parlato - ed erano più di uno -
mi spiegava che proprio nel momento in cui «scattava» la legge per «tirarli
fuori», come dite voi, i malati nelle sue stesse condizioni chiedevano invece di
rimanere all'interno delle strutture carcerarie, in ragione dell'assenza, sul
territorio, di una adeguata assistenza per questo tipo di malattia. Tutti li
rifiutano, ed esiste in Italia un solo ospedale (forse due) disposto ad
accettare questo tipo di malati in prevenzione o in cura. .
Dobbiamo essere sinceri e veritieri, non possiamo inventarci favole quando nella
realtà il carcerato romano vuole e chiede di tornare in carcere, in mancanza di
una struttura di assistenza per questo tipo di malattia. Nel caso del Regina
Coeli, la struttura dispone di un reparto di 45 posti letto :si tratta infatti
del reparto più grande d'Italia, mentre appaiono carenti molte strutture
sanitarie. Quello che rimane certo, in ogni caso, è il diritto di questi malati
ad un'assistenza continua, compito che si cerca invece di scaricare sul medico
di base.
Il medico di base ripropone una questione analoga ai vecchi manicomi, dove non
si assisteva nessuno, perché lo specialista interno prestava assistenza solo in
casi sporadici - io sono medico di base e quindi so di cosa parlo -. Ripetere
questa condizione nelle carceri mi sembra che sia molto superficiale. Quindi
l'indagine conoscitiva dovrà indagare su questi aspetti e sulla realtà
riscontrata in questi quattro anni di sperimentazione. Mi pare che non ci sia
una relazione soddisfacente dal punto di vista della pratica medica all'interno
dell'istituto.
Non credo che potremmo giungere a conclusioni serie entro il 31 marzo 2004. Mi
auguro che ben presto i due ministri interessati vengano a riferire alle
Commissioni quello che vogliono fare in concreto e quali sono i finanziamenti
necessari per assistere degnamente il cittadino detenuto. Non è necessario,
collega Valpiana, tirare tutti fuori dal carcere, ma è sufficiente poterli
curare in maniera dignitosa anche all'interno del carcere, qualora le condizioni
di salute consentano la permanenza dei detenuti negli istituti.
Ho visitato un carcere nelle Marche, a Fossombrone, dove i detenuti politici mi
raccontavano che i farmaci per l'esaurimento nervoso non erano somministrati per
paura che fossero utilizzati come droga. Ciò significa che mancano gli
specialisti o che manca la sensibilità del direttore dell'istituto di compiere
questa scelta, usando lo specialista per certi tipi di malattia. Cerchiamo di
fare un discorso serio su questa problematica senza concludere i lavori
sommariamente, prorogando quindi il termine dell'indagine.
PRESIDENTE. In considerazione degli ulteriori impegni delle Commissioni II e
XII, invito i nostri ospiti a fornire memorie scritte in ordine ai quesiti
posti. Possiamo dunque considerare conclusa l'audizione (Commenti).
FRANCESCA MARTINI. Presidente, reputo gravissimo che, mentre lei stava
dichiarando conclusa l'audizione, alcuni degli intervenuti si siano rivolti con
arroganza ai deputati presenti dicendo «le carceri si devono vivere, non
visitare; ditelo all'onorevole Bossi». Ritengo offensivo e inaccettabile che ai
membri delle Commissioni vengano rivolte certe affermazioni e che soggetti
auditi intervengano facendo simili commenti.
PRESIDENTE. Convengo con lei, onorevole Martini, sull'inopportunità che i
soggetti auditi indirizzino certe osservazioni ai membri delle Commissioni.
Dichiaro conclusa l'audizione. |